Il CSV di Bologna ha organizzato il 6 aprile scorso un incontro dal titolo “L’intangibile nella progettazione sociale”. Questo incontro seguiva la pubblicazione di un numero di Vdossier dedicato allo stato attuale della progettazione sociale. L’incontro è stato interessante per vari motivi, ma quello che mi ha colpito maggiormente è che si è provato a parlare di tutto quello che fa parte della progettazione sociale, ma non è così codificato e definito.
È stata l’occasione per incontrare persone che provano anche a fare le cose diversamente, come Dino Cocchianella del Comune di Bologna…questa è stata un po’ la sensazione, essere tra persone che provano a realizzare progetti in modo un po’ nuovo. Ma nuovo come? Diversamente perché? Intanto va apprezzato che si è provato a parlare di progettazione sociale…
Torno a porre una semplice domanda. Come mai ci sono convegni e continue pubblicazioni su tematiche limitrofe (valutazione, fund raising, comunicazione sociale, politiche sociali…) e così poche riflessioni sulla progettazione sociale? Come mai la dimensione più direttamente connessa alla costruzione dei servizi e degli interventi è trascurata? Certo, i progettisti sociali sono fondamentalmente impegnati a realizzare progetti, più che a “perder tempo” con la teoria…
Seconda domanda. Come mai spesso, anche se non sempre, chi affronta il tema della progettazione sociale non lavora come progettista sociale? Ad esempio, una parte rilevante dei testi, quei pochi, sulla progettazione sociale è scritta da docenti universitari, o da ricercatori e pochissimi da operatori. A Bologna si sono incontrati operatori (e con questo termine intendo persone che lavorano nella costruzione e realizzazione di progetti sociali), sia del pubblico sia del privato, e questo è già importante, così come succede agli eventi di APIS. Entrando nel merito dei temi discussi, è stato interessante chiedersi che rapporto ci fosse tra dimensioni tangibili e intangibili nella progettazione sociale. E all’incontro ho manifestato alcuni miei dubbi su quelle che ho definito le “convinzioni” della progettazione sociale.
La prima convinzione è quasi una certezza universalmente condivisa. In parole semplici, si pensa che in progettazione sociale ci siano degli aspetti molto importanti ma non facilmente rilevabili (ad esempio, la maggiore fiducia in sé di una ragazza madre, o alcuni anziani che escono dalla solitudine, o minori che ricostruiscono un buon rapporto con la scuola…), e dimensioni poco importanti in sé, ma facilmente rilevabili (ad esempio, presenze ad un corso di formazione, pagamenti bancari, numero di prestazioni erogate in un certo periodo….). Si pensa anche che tra dimensioni intangibili e tangibili ci sia un rapporto, cioè che le dimensioni intangibili si manifestino in qualche dimensione tangibile. Siccome in progettazione sociale si assume che conoscere (per poter decidere) e rilevare (per poter conoscere) sia essenziale, il problema diventa capire quali dimensioni tangibili siano quelle più utilmente connesse a quelle intangibili, che assumiamo come importanti. E da questo segue lo strenuo impegno (in cui i ricercatori sociali si sentono chiamati in causa) a identificare dati e indicatori il più possibile diversificati, validi, credibili disegni di ricerca e metodi di rilevazione corretti e fondati che restituiscano una conoscenza oggettiva e affidabile della realtà. E da queste convinzioni iniziano i miei (non solo miei) dubbi, che ho manifestato a Bologna.
Possiamo conoscere la realtà sociale tramite gli elementi rilevabili oggettivamente, e soprattutto quali conseguenze ha questa convinzione? Cito da un Avviso di un municipio di Roma, per l’affidamento di un servizio per anziani. Intangibile desiderato: il progetto dovrà servire a:
incrementare la qualità della vita dei soggetti destinatari del servizio in termini di benessere psico-fisico rallentando così il decadimento della salute (….) raccogliere e stimolare gli interessi culturali, sostenere l’apprendimento dei partecipanti e valorizzare le capacità delle persone anziane
Tangibile rilevato:
I progetti saranno valutati in base a: curriculum documentato attestante le esperienze pregresse; curricula documentato degli operatori coinvolti nel progetto; possesso di certificazione di qualità riconosciuta; adeguatezza dei sistemi di monitoraggio e autovalutazione; chiarezza degli obiettivi della valutazione e degli indicatori; gestibilità dell’impianto di valutazione
Ad un primo sguardo, appare tutto molto sensato: per affidare un servizio con soldi pubblici, nulla di più corretto che basarsi su elementi oggettivi. Ma proviamo a fare un’ipotesi. Immaginiamoci che in un comprensorio abitativo le famiglie decidano di fare una colletta e autofinanziare delle attività per i membri anziani delle stesso comprensorio, raccogliendo una cifra di media entità. Possiamo davvero pensare che affiderebbero il servizio utilizzando quei criteri? Più in generale, qualcuno affiderebbe mai persone a cui è affezionato a professionisti sulla base di “quanto hanno chiaro gli obiettivi della valutazione” o degli “anni di esperienza” o del “possesso di certificazioni”? Soprattutto, è credibile che nulla sia rilevato rispetto alla qualità del progetto e delle attività proposte per perseguire la difficile finalità di “stimolare gli interessi culturali” oppure di “valorizzare le capacità degli anziani”? Se è vero che per affidare i soldi pubblici occorrono criteri verificabili, quell’avviso è più affezionato agli anziani o ai “principi per affidare” i soldi pubblici? Siamo sicuri che questa grande enfasi sugli indicatori, sulla valutazione, sugli elementi tangibili sia realmente mossa dalla volontà di realizzare i migliori progetti per i destinatari? Io no. Mi pare piuttosto che quasi tutto il sistema di programmazione/finanziamenti/progetti sociali sia in mano ad una precisa convinzione, più interessata all’oggettività che alla sensatezza e utilità. Oggettività vista come tutela dai dubbi di interesse di parte, dall’uso improprio delle risorse pubbliche, dalle possibili strumentalizzazioni politiche. Quindi un investimento quasi ossessivo in criteri oggettivi e in sistemi valutativi il più possibile dettagliati, cha hanno chiari i propri obiettivi e che siano gestibili…(verrebbe da chiedere per fare che..). Più che per assumersi responsabilità politiche e per impegnarsi a migliorare la vita dei propri cittadini, politici ed operatori sembrano impegnati a liberarsene il più possibile.
Vi presento il progettista fotografo. Il livello di questa deriva è sotto gli occhi di tutti. Sono stato coinvolto come responsabile della progettazione per un intervento riguardante l’accoglienza dei minori non accompagnati. Per capire qualcosa del problema e di come le associazioni si stanno impegnando a fronteggiarlo, ho incontrato i volontari e gli operatori in una serie di momenti che mi hanno aperto un mondo su situazioni drammatiche, fatte di rapimenti, fughe, paziente lavoro di relazione, bambini salvati e bambini tragicamente perduti. Anni ed anni di esperienze, impegno spesso rischioso sul piano personale, paziente costruzione di reti, sperimentazioni e invenzioni di metodi, dedizione appassionata al destino dei bambini, anni di esperienze che ora potevano diventare un modello di intervento tramite un finanziamento, se fossi riuscito, da progettista, a trasferirle in un progetto finanziabile. Al momento in cui mi sono ritrovato a sintetizzare tutti questi racconti, mi sono visto davanti una sezione in cui potevo scrivere…8 mila caratteri. Lo so che il Presidente APIS è un proverbiale maestro di elaborazione scritta, e so anche quanto è importante codificare e trovare linguaggi e logiche che permettano di condividere idee tra i vari livelli decisionali…ma 8 mila caratteri mi sembra che indichino qualcosa di più che la volontà di chiarezza, mi sembra indichino la diffidenza verso la responsabilità. Perché più minimali sono i criteri di scelta, meno attaccabili sono le decisioni di finanziare uno o l’altro progetto. E quindi il contributo del progettista diventa simile ad un’istantanea di un fotografo, sperando che racconti in modo più possibile utile la realtà.
Certo, è un problema del sistema, non dei responsabili politici. Un referente di un fondo che finanzia progetti formativi mi raccontava sconsolato che ormai erano costretti a ammettere i progetti sulla base dell’ordine cronologico, perché non riuscivano più a gestire i ricorsi degli enti rispetto agli esiti delle valutazioni qualitative. Insomma, sembra che siamo ossessionati dalla correttezza, fine a se stessa, delle decisioni. I soldi pubblici dovrebbero essere assegnati ad operatori per realizzare progetti che migliorino la vita delle persone. Sembra che il sistema stia diventando una macchina inattaccabile, ma sempre più incapace di essere intelligente, creando decisori frustrati, operatori alienati e destinatari sempre meno protagonisti. E quindi? Se gli indicatori sono assurdi, o stupidi, o riduttivi, si tratta di impegnarsi a sviluppare tecniche migliori di costruzione di indicatori? Tecniche più valide e di certificata efficacia come la “Scala delle Priorità Obbligate (SPO) che consente di gerarchizzare, attribuendone un valore ordinale, gli indicatori contenuti in un paniere precedentemente selezionato” come dicono alcuni autori nel numero di Vdossier sulla progettazione sociale?
Inizio ad avere dubbi sull’utilità delle tecniche e sulla loro efficacia certificata, come su tutti i certificati di qualità che si assume di poter assegnare ad interventi sociali per avere garanzie preventive sulla loro utilità, che sono costitutive invece dei rapporti di quel preciso sistema di relazioni. Forse per sviluppare progetti sociali occorre una competenza molto più ampia e complessa, molto più interessata a recuperare il senso che le persone attribuiscono all’impegno comune, ai rapporti e alle difficoltà degli incontri, ai vissuti e alle motivazioni. Forse occorre invertire la rotta, e trovare il modo di far parlare le persone, anche mantenendo i ruoli e con adeguato rispetto delle differenti responsabilità, anche impegnandosi in processi più lunghi, ma riassumendoci tutti il compito di ritrovare il valore e le potenzialità di un sistema da cui in parte dipende il destino di chi è più escluso e in difficoltà. Io sono un metodologo e sia sul piano dello sviluppo dei progetti, sia su quello delle singole attività abbiamo moltissime risorse per avviare un ripensamento collettivo che ci faccia uscire da quello che assomiglia quasi un incantesimo. Come APIS saremmo e saremo felici di far parte di questo nuovo inizio.
Karim Jamil Amirian